Il mio primo istinto è sempre quello di cercare la prima cosa affilata a portata di mano per fare quello che il mio stomaco annodato e il mio cervello in cerca di una via di fuga vogliono disperatamente che io faccia.
E i miei occhi cercano freneticamente qualcosa che soddisfi i criteri - qualcosa che tagli, qualcosa che laceri, qualcosa che faccia sanguinare.
Qualcosa che faccia tacere, qualcosa che sostituisca il dolore che sto provando in quel momento con qualcosa di più concreto e di più reale - qualcosa che io possa toccare con mano e che intanto mi sporchi le dita di rosso.
Sono state poche le cose nella mia vita che mi hanno mai fatto provare una voglia così irrefrenabile - il grido disperato della mia psiche che minaccia di collassare se non mi procuro in fretta una lametta oppure un paio di forbici è una di queste.
Dopo quasi vent'anni una dovrebbe averci fatto l'abitudine, il callo - no?
Invece a quanto pare no.
Perché anche quando credi di aver messo tutto a tacere, anche quando non piangi più mentre ti trucchi prima di uscire, anche quando non ti viene voglia di spaccare con un pugno ogni specchio in cui ti rifletti, poi c'è sempre qualcosa che ti ricorda che hai solamente fatto la finta tonta fino a quel momento.
Io non ho mai dato fastidio a nessuno, non sono mai stata una bulla fino ai miei diciannove anni quando tutti avevano fin troppo tirato la corda, ma anche lì ero solamente una finta bulla - ero solo l'ispirazione, quella il cui malumore era stato una scusa che aveva "permesso" a tutti di tirare fuori il peggio di loro.
Io ero indifferente, io osservavo, io annuivo, io tacevo, io non ho mai proferito parola né in un senso o nell'altro.
Perché io a quasi trent'anni ho ancora la fobia di salire su un autobus e cammino sul marciapiedi opposto piuttosto che su quello che mi fa correre il rischio di incrociare qualcuno.
Eppure anche camminando sul marciapiedi opposto, anche facendomi i fatti miei, anche non prestando attenzione perché poi mi convinco che altrimenti la mia paranoia mi farebbe sentire/vedere cose che in realtà non esistono oppure non hanno a che fare con me, lo stesso vengo apostrofata e derisa e umiliata da perfetti estranei che non sanno nulla di me e lo stesso si sentono in diritto di giudicare il mio aspetto e di fare a sapere a tutti in paese a voce alta quello che pensano di me.
Perché deve esistere questa cattiveria? Perché non siamo capaci di tenerci un singolo pensiero solo per noi, anche non riusciamo a resistere alla brutta abitudine di giudicare qualcuno che non conosciamo? Perché dobbiamo sentirci grandi umiliando le altre persone? Perché ci sentiamo in diritto di sminuirle non sapendo nulla di loro, basandoci solamente su quello che vediamo?
Perché io che non ho mai alzato la voce, io che non ho mai preso in giro nessuno in questo modo, io che fin da piccola ho sempre voluto tanti amici e invece sono finita con l'avere paura di uscire di casa proprio per questi motivi, finisco per essere sempre l'oggetto di queste umiliazioni?
Di queste ennesime parole che mi si sono marchiate a fuoco nel cervello e che non riuscirò più a dimenticare? Di queste ennesime parole che continuerò a sentire nelle orecchie ogni volta che mi guardo allo specchio?
Anche quando vorrei convincermi che è solo la mia paranoia a giocarmi brutti scherzi, so che in realtà l'oggetto di quelle frasi - di quel veleno - ero proprio io.
Oggi si preannunciava una giornata simile a quella di sedici anni fa, come luce del sole e temperatura - poi invece è andato tutto a scemare.
Come abbiamo fatto noi, insomma.
E il fatto che l'altra notte ti abbia anche sognata, che il mio sogno ricorrente della scuola fosse leggermente cambiato ma che ancora noi fossimo tornate migliori amiche mi ha lasciata come sempre disorientata al risveglio.
A metà di questo mese sono andata al mare un pomeriggio a fare una passeggiata.
E in realtà è questo il mare che amo - quello della bassa stagione, quello con poca gente in giro, quello dell'acqua che si ingrossa e del vento che tira un po' freddo ma con il sole che ancora ti riscalda le spalle.
Questo è il mio mare preferito - quello solitario, silenzioso ma anche capace di parlare.
Non quello super-affollato e caotico e intasato di turisti, non quello bollente che ti toglie il fiato dai polmoni e ti brucia la pelle.
Forse gli stereotipi sulla gente di mare a volte sono un po' veri - noi siamo quelli che restano quando tutti tornano in città, quelli che il mare lo guardano e lo capiscono.
Spesso - nel corso degli anni, ma anche adesso - ho sognato di andare a vivere in città.
Una parte di me brama quella voglia di perdersi in una folla e non essere vista, non essere conosciuta, essere solo un volto di passaggio che potresti non incontrare mai più, essere qualcuno invisibile che non lascia il segno.
Eppure il mare mi mancherebbe.
Qui in inverno non c'è niente da fare, è tutto chiuso e in maniera masochista ogni anno attendiamo con trepidazione che apra la stagione in modo da poter uscire di casa e vedere facce nuove e avere qualcosa da fare, ma per noi che viviamo tutto l'anno al mare... il mare diventa parte di noi.
Qualcosa che, anche se come me non ci metti mai piede perché soffri terribilmente il caldo e ti ustioni in dieci minuti di esposizione e non sopporti la folla molesta di turisti, diventa inconcepibile lasciare.
Perché poi l'estate passa, tutti tornano a casa e il mare torna ad essere soltanto tuo.
Torna ad essere sabbia e acqua a perdita d'occhio, rumore delle onde contro gli scogli e sulla battigia, aria profumata di salsedine e vento tra i capelli e sole che non fa male e la promessa di qualcosa di verrà - di qualcosa che tornerà e che sarà sempre lì ogni volta che ne hai bisogno.
Perché noi gente di mare ne abbiamo bisogno - abbiamo bisogno del mare solo per noi, del mare che ti guarda mentre tu lo guardi e ascolta i tuoi pensieri e risponde al ritmo del battito del tuo cuore.
E se anche pensiamo di andarcene oppure lo facciamo sul serio, una parte di quel mare viene con noi e una parte di noi è ancora seduta sul molo a guardare l'orizzonte.
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