sabato 20 gennaio 2018

Mi rendo conto che predico bene, ma razzolo male. 
Davvero male. 
Malissimo. 

Nelle recensioni scrivo cosa insegna un libro, affermo determinate cose e poi mi rendo conto che sono io la prima che non ci crede - che ancora non riesce a farlo perché forse sono troppo danneggiata.  


Non è un mistero che io legga libri che parlano di bullismo. 
Soffro, mi faccio del male da sola, ma in qualche modo per me hanno anche qualcosa di catartico - vedo che non sono sola, leggo le possibili "scuse" con cui i bulli si giustificano. 
Non arrivano mai ad essere le "risposte" che ancora cerco e che probabilmente non troverò mai, ma sono un buon palliativo. 

Di solito però leggo libri ambientati nelle scuole superiori americane, che presentano somiglianze con la mia vita ma che non combaciano mai perfettamente. 
E soffro, lo faccio, ma con un sistema scolastico così diverso c'è sempre una sorta di... distacco.  

Quando parlo di bullismo e ci penso, mi viene sempre in mente il liceo. 
E mi viene in mente perché la mia "rottura" è avvenuta in quegli anni - il primo attacco di panico, la prima telefonata in lacrime a mio padre supplicandolo di venirmi a prendere perché non ce la facevo a salire sul pullman, la violenza verbale che a volte diventava fisica. 

Sono anni che ancora mi fanno tremare - di sofferenza, ma anche di rabbia.  
Eppure mi rendo conto che è stato il culmine di un processo che era cominciato molti anni prima. 

Nel libro che ho finito ieri, la protagonista cominciava ad essere umiliata a dieci anni e improvvisamente mi sono resa conto che parlo sempre del liceo, ma in realtà le medie sono state il mio vero calvario. 

Perché se al liceo ho subito insulti e umiliazioni verbali e fisiche, è anche vero che accadevano al di fuori della classe - perché se anche sono non sono mai stata la leader, se anche non sono mai stata l'amica di tutte, se anche ero silenziosa e ascoltavo musica diversa dalle altre, nessuno in quella classe mi ha mai presa in giro direttamente in faccia. 
Magari c'erano occhiate strane, frasi sussurrate a mezza bocca, cose che venivo a sapere quando restavo a casa per qualche motivo da qualcuno che me le riferiva e che sì, mi facevano stare male, ma alla fine non erano niente di che - eravamo divise in fazioni in quella classe, quindi alla fine c'era sempre almeno una persona "nel mio angolo". 

Il mio problema con il bullismo al liceo aveva a che fare con tutto quello che era esterno alla mia classe - e quindi finché non uscivo da quell'aula ero relativamente al sicuro.  

Il mio problema era con le tipe più piccole del mio stesso liceo, il mio problema era con i geometri, il mio problema era con la gente in corridoio oppure nelle proprie aule mentre io passavo - il mio problema era con tutta quella gente che saliva sul mio stesso pullman e che poi mi ritrovavo ad un'aula oppure ad un corridoio di distanza. 
Il mio problema era quel soprannome che mi aveva seguita dalle medie e che si era diffuso a macchia d'olio. 

Il mio problema ero io che ero un bersaglio fin troppo facile. 

E quando penso al bullismo penso sempre a quello. 
E penso a quello perché ho volutamente dimenticato - o perlomeno "oscurato" e annebbiato - quello delle medie. 

E penso a quella ragazza di carta di cui ho letto ieri, di come è cominciato tutto per lei alle medie e di come l'ha seguita. 
E ho ricordato com'era insostenibile essere in quella classe cinque ore al giorno, ignorata e terrorizzata dal più piccolo movimento che avrebbe attirato l'attenzione su di me. 
Ho ricordato quelle che erano mie amiche e per le quali non valevo più niente, che mi prendevano in giro e mi umiliavano e fingevano che io non esistessi. 
Ho ricordato quelle volte in mensa quando ero lasciata sempre sola in fondo alla tavolata e non sentivo nulla di quello che veniva detto - apposta.  

Ho ricordato come tutto ha cominciato a diffondersi, ho ricordato la sorpresa nello scoprire che qualcuno si accorgeva di come mi trattavano ma che alla fine lasciava che accadesse, ho ricordato il tema che avevo scritto e come la mia professoressa di italiano mi avesse risposto a parte, ma ora mi rendo conto che di fatto non era stato fatto niente. 

Ho ricordato come è andata avanti mesi, anni - dalla seconda media per quanto posso ricordare e poi improvvisamente alla fine della terza media hanno iniziato a comportarsi come se non fosse mai accaduto nulla. 
Ma la frattura c'era e stava cominciando ad allargarsi perché io già non ero più la stessa - non dopo quel 13 novembre 2002, non potevo più esserlo. 

Penso sempre alle superiori come al periodo in cui ho cominciato con l'autolesionismo perché ho cominciato a tagliarmi con la lametta, ma la verità è che già in seconda media mi piantavo le unghie in un braccio per riuscire a calmarmi e a riprendere a respirare. 

E da lì è stata una valanga senza freni. 

La protagonista del libro stava male fisicamente all'idea di andare a scuola, considerava come vittorie i giorni in cui veniva ignorata oppure le prese in giro erano al minimo, voleva essere invisibile o addirittura avrebbe preferito essere morta - e tutto questo l'ho provato anche io. 

La protagonista arriva a trent'anni ed è un vero disastro e, cazzo, io sono uguale.  

Nella recensione ho scritto che il libro insegna che noi non siamo inferiori a nessuno, che nessuno è davvero "strano" oppure "normale" e che con sostegno e terapia si può iniziare a guarire. 

Ma io sono ancora quella che abbassa gli occhi quando incontra qualcuno di quei bulli oppure distoglie lo sguardo, sono quella che in situazioni sociali si "mette i tappi" e non ascolta oltre il tavolo a cui è seduta per paura di cogliere conversazioni e frasi sgradevoli - cosa che ho fatto anche la settimana scorsa e io cado sempre dalle nuvole quando qualcuna delle mie amiche mi riferisce cosa è stato detto perché io mi isolo volontariamente. 
Sono quella che ancora trema e a cui ancora si rivolta lo stomaco con il bisogno di vomitare per l'ansia e il panico quando vede qualcuno che l'aveva presa di mira. 

Sono ancora quella che trema quando vede un adolescente - a quasi 29 anni non riesco a rendermi conto di essere adulta. 
Non l'ho mai scritto perché sono stata assente per tutta l'estate sul blog, ma al lavoro mi veniva quasi un attacco di panico ogni volta che entrava in negozio un gruppo di adolescenti e dovevo servirli io. 
Due volte quest'estate, quando sono arrivata al lavoro nel pomeriggio, mi sono trovata fuori dal negozio uno dei peggiori aguzzini della mia adolescenza e stavo quasi per crollare a terra perché le gambe non mi tenevano su, tanto che poi mi sono inventata qualcosa da fare in magazzino per non averci nulla a che fare anche se al contempo fremevo di rabbia. 

Perché dovevo essere io a nascondermi? Perché dovevo essere io quella che si vergognava quando lui era solamente un grandissimo ipocrita che mi tormentava ogni giorno quando andavamo a scuola e che qualche anno dopo su Facebook si faceva passare per quello che "come si fa a prendersela con delle povere ragazzine?" nel periodo in cui al telegiornale non si vedevano altro che i video di quei pestaggi femminili? 
E io, eh? E io? 

Come ho fatto quella volta a non dare un pugno al muro dalla rabbia non lo so nemmeno.

Ma sono anche quella che una volta si è rifiutata di stringere una mano in un giro di presentazioni "sociali", durante il quale mi sono trovata davanti un altro di quelli che mi prendevano in giro e in quel caso l'ho guardato talmente male che è stato lui ad abbassare lo sguardo. 
Questo però sarà capitato solo due o tre volte, perché in realtà sono ancora io quella distoglie lo sguardo e fa finta di guardare qualcos'altro oppure cambia strada. 

Io sono quella che ancora non riesce a salire su un pullman in tranquillità, forse perché già a sei/sette anni ho cominciato a sentirmi indesiderata. 
Quello è un ricordo che è sepolto così a fondo che quasi sempre dimentico sia accaduto: io alle elementari che salivo a bordo del pulmino che mi avrebbe portata a scuola ed ero la più piccola in mezzo a tutti quei ragazzi così grandi - alcuni che andavano anche già alle medie. 
E ricordo che chiedevo sempre a questa ragazza dall'aria simpatica se potevo sedermi con lei davanti, ma lei sbuffava sempre e sentivo tutti dalla seconda fila fino in fondo che mi prendevano in giro e una volta sono rimasta in piedi bloccata nel passaggio tra le due file perché non sapevo cosa fare o dove andare visto che tutti gli altri posti erano occupati. 
Ricordo come ero arrossita dalla vergogna e come poi non riuscissi più ad alzare lo sguardo. 
Da quella volta in poi, salire su un pullman mi ha sempre fatto venire un attacco d'ansia alla sola idea perché poi non è stata l'unica volta in cui qualcuno avrebbe rifiutato di farmi sedere accanto a sé facendomi restare in piedi di fianco ad un posto vuoto - e l'autista spesso se ne fregava oppure mi urlava di sedermi come se fosse stata colpa mia. 

Forse sarei uscita dall'adolescenza ammaccata, ma sarei sopravvissuta al bullismo incessante. 
Invece sono convinta che il lavoro di distruzione della mia autostima alle medie abbia minato fin da subito qualsiasi possibilità io avessi di farcela. 

Perché ancora sento nella testa quelle frasi e quelle parole. 
Perché ancora vedo quelle occhiate. 
Perché ancora sono quella dodicenne umiliata e presa in giro e ignorata, a cui veniva detto che non valeva nulla e che faceva schifo e che sarebbe rimasta sola per sempre. 
Perché ancora sono quella che ci crede e, ehi, la vita alla fine ha dato ragione a tutti loro. 

Ho adorato il messaggio di quel libro nel finale, ma io proprio non sono in grado di seguirlo. 

On air: God Is An Astronaut - All Is Violent, All Is Bright 

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