venerdì 27 gennaio 2017

Nella mia mente sono radicate tutte le cattiverie che mi sono state dette negli anni e sono radicati anche tutti i pensieri che urlano quando sto per cedere alla debolezza. 
Ad un certo punto, questa voce si è distinta dal coro ed è stato impossibile ignorarla - una voce che mi diceva di stare dritta a testa alta, di non mostrare la lacrime e il dolore, di non mostrare nessun punto debole. 
Già mi stavano attaccando, che cosa avrebbero fatto se avessero intravisto le altre crepe che tentavo in tutti i modi di occultare? 

Non potevo avere punti deboli, non potevo avere niente che potesse fornire loro un appiglio - anche se comunque l'avrebbero sempre trovato. 

Prima ancora di sanguinare per davvero, sanguinavo metaforicamente. 

Ero ossessionata dalla perfezione. 

Cercare di essere perfetta innesca un meccanismo che porta ansia e rabbia e paura - l'ansia del continuo lavorarci sopra, la rabbia dei passi falsi e la paura del fallimento. 
E poi non riesci più a farne a meno, non riesci a lasciare andare una volta che hai cominciato - non riesci a mollare la presa. 

Cercare di essere perfetta porta alla costante competizione - con te stessa e con gli altri. 
Nella mia mente si è radicato il pensiero di arrivare per prima a tutte le mie debolezze e a tutto quello che mi rendeva vulnerabile. 
Loro si divertivano a farmi a pezzi e a dilaniarmi l'anima? Bene, io gli avrei tolto qualsiasi divertimento perché sarei stata io la prima a fare terra bruciata e a tagliare e a lacerare e fare una strage. 

E poi è diventata un'ossessione, ma niente di tutto quello che ho provato a fare mi ha mai resa perfetta.

Una parte di me è ancora aggrappata a quell'idea.  


Non ricordo cosa stessi facendo in questo preciso giorno dieci anni fa - so solo che i due anni di inferno erano già cominciati. Forse in questo periodo dieci anni fa avevo un momento di tregua, tra una crisi di nervi e l'altra. 

Di quei due anni, probabilmente uno e mezzo l'ho passato piangendo o urlando - o entrambe le cose - tutti i giorni. 
Ricordo le crisi violente di pianto, quelle che non riuscivo a trattenere ma che con il tempo ho imparato a fermare. 
Ricordo quella del maggio 2007, quella dove mia madre mi ha sentita dal piano di sopra ed è scesa in bagno a vedere come stavo. Ricordo l'umiliazione che ho provato perché non volevo farmi vedere così vulnerabile neanche da mia madre e così mi sono imposta di smettere. E l'ho fatto. 
Quando se n'è andata, ho ricominciato ma ancora una volta mi ha sentita e io ancora una volta ho arrestato il pianto. 

Era un altro di quei meccanismi che si sono messi comodi nella mia mente senza che io me ne accorgessi e che poi hanno iniziato ad innescarsi automaticamente e poi a prendere il sopravvento

Onestamente non ricordo più l'ultima volta che ho pianto davvero per me stessa. 

Ho pianto - e continuo a farlo - per mio nonno
Ho avuto crisi violente di pianto per Cico nel corso dei sei mesi successivi alla sua morte - crisi così violente che sembrava avessi le convulsioni. A volte ancora capitano.
Ho avuto una crisi da stress così violenta al mio secondo anno di università che non riuscivo nemmeno ad emettere un suono. 
Queste sono crisi che non sono in grado di fermare quando la prima lacrima scivola sulla guancia. 

Ma tutte le altre..

Non sono invulnerabile, anche se vorrei esserlo. 
Ci sono volte in cui sono più triste o arrabbiata del solito e sento le lacrime annebbiarmi la vista, ma poi scatta quel meccanismo inconscio e non ne verso neanche una. 
A volte, se ho tempo o privacy, me lo concedo un pianto di cinque minuti perché so che ad un certo punto le lacrime devo farle uscire per sfogarmi in qualche modo - magari in un modo più salutare di quelli che us(av)o di solito. Ricordo, forse due o tre anni fa, di aver pianto cinque minuti a causa della mia ex-migliore amica per qualcosa che era successo quel giorno, ma di essemi poi imposta di fermarmi e di smettere di piangere.

Si tratta sempre di quel famoso autocontrollo che tanto (ancora) bramo con tutta me stessa, quello che la vocina della mia versione quindicenne mi impone sempre di non lasciare mai andare perché anche solo cinque minuti potrebbero mandare tutto a puttane. 
Quando sento una crisi arrivare e le lacrime salire, scatta lo stesso meccanismo che uso nelle altre situazioni: mi impongo di riprendere il controllo del mio respiro, mi dico che non ho né il tempo o la privacy o il lusso di poter piangere in quel momento e che, se proprio devo, lo farò più tardi. E poi mi distraggo in qualche modo. 

È il mio modo di riprendere il controllo, è il mio solito motto "un giorno alla volta, una menzogna alla volta"
E dire che avrò dopo il tempo per piangere è l'ennesima menzogna che racconto a me stessa per non cedere all'impulso in quel momento. 

L'ho fatto l'estate scorsa in un'altra circostanza, quando mi sono imposta di sorridere nonostante quello che mi veniva detto da chi mi stava di fronte e nella mia testa avevo una guerra tra la parte più istintiva di me che si stava già guardando attorno per qualcosa di tagliente da afferrare e quella razionale che tentava di calmarla, dicendole che ci sarebbe stato tempo e privacy più tardi nella mia camera per aprire il cassetto del mio comodino in tutta tranquillità se proprio volevo farlo. 

Questo è stato per le mie tendenze malate, ma il principio è lo stesso per il pianto. 
Ieri sera, mentre mi stavo truccando per uscire, sono stata presa dal principio di una crisi e mi sono ritrovata con la vista annebbiata mentre mi specchiavo. 
Ho visto le lacrime nei miei occhi, ma li ho alzati al soffitto e mi sono imposta di non farlo, mi sono imposta di non pensarci nemmeno, mi sono detta che se proprio volevo piangere avrei potuto farlo quando fossi tornata a casa. 
Mi sono imposta di concentrarmi su quello che stavo facendo e non su quello che sentivo, mi sono imposta di concentrarmi sui movimenti della mia mano mentre tracciavo la linea dell'eyeliner e non sulla tempesta emotiva che infuriava dentro di me. 
E non ho versato neanche una lacrima, non in quel momento e neanche più tardi - esattamente come l'estate scorsa non mi sono ferita nel preciso istante in cui ho desiderato farlo e neanche una volta arrivata a casa. 

Il principio che sta alla base di tutto è quello di prendere tempo - prendere tempo per lasciare che la mia parte razionale abbia la meglio, prendere tempo per lasciare che minuti oppure ore mi distraggano abbastanza da farmi passare le crisi emotive o mi facciano costruire un castello di scuse e bugie abbastanza credibili per convincermi a non farlo se ancora ne sento il bisogno o la voglia. 

Non ricordo l'ultima volta che ho pianto davvero per me stessa perché non ricordo l'ultima volta che mi sono concessa di farlo.   


A volte mi viene concessa la grazia di non ricordare gli incubi che ho fatto durante le ore di sonno. A volte qualche flash lo rivivo comunque mentre sono sveglia. 
Ma anche se non li ricordo, so di averli fatti. 
Riconosco il battito accelerato, il respiro affannato, la mia mano che cerca qualcosa attorno a me che non riesce a trovare o che semplicemente non esiste. 
Mi sveglio che mi manca il fiato e so che, se mi prendessi il disturbo di guardare, noterei che la sveglia è andata avanti di appena un'ora dall'ultima volta che l'ho guardata - sempre puntuale come un orologio svizzero. 

Ma se invece non mi sveglio, riconosco una notte di incubi da altre cose. 
Dal modo in cui sono più irrequieta del solito, dal modo in cui mi viene da perdere la pazienza e rispondere male più facilmente, dal modo in cui sono più in allarme del solito. 
Dal modo in cui flash spaventosi mi passano davanti agli occhi, scatenati all'apparenza da un semplice nonnulla.  

A volte, per quanto abbiano la velocità di un flash, alcune immagini restano fisse e impresse nella mia mente e mi tormentano per i giorni a venire. 
La settimana scorsa - o forse nei primi giorni di questa - ho sognato quello che ho tentato di fare a 13 anni e questa volta c'ero riuscita ed era come se mi stessi guardando dall'esterno. E quando poi, qualche giorno dopo, mi sono fermata davanti allo specchio e ho riconosciuto quello sguardo totalmente assente ed estraneo, ho avuto i brividi.

E se ci sono incubi ricorrenti - io a scuola, io che rischio di perdere l'autobus con lo zaino sfatto e il cappotto aperto, io sull'autobus con la gente delle medie e delle superiori mescolata in un tragitto che non ha senso, io che vengo inseguita, io sul treno sbagliato oppure impossibilitata a scendere, una combinazione folle e allucinante e malsana e angosciante di tutto quello appena citato - che mi fanno svegliare di soprassalto, ci sono anche incubi dai quali non riesco a riemergere tanto facilmente. 

Un altro incubo ricorrente è quello in cui cammino ad occhi chiusi e, per quanto ci provi, le palpebre sono troppo pesanti perché io riesca a sollevarle. 
Cammino spedita ma di fatto non vedo dove sto andando ed è sempre come se stessi camminando nel sonno - nel sogno, se provo ad aprire gli occhi, vengo colta immediatamente da una sensazione di intorpidimento come se mi stessi per addormentare. Ed è come guardarsi dall'esterno, so che sto dormendo ma non riesco ad aprire gli occhi e mi viene il panico perché come posso essere addormentata e sognare di addormentarmi? 
Provo a sollevare le palpebre e tento di resistere all'intorpidimento, ma è troppo difficile - troppo stancante. Ma continuo a camminare senza vedere dove vado. E mi agito perché non riesco ad aprire gli occhi - sia nel sogno che nella realtà, perché so e sono cosciente del fatto che sto sognando ma non riesco a svegliarmi. Mi sento sempre come se fossi inchiodata al letto.
E se per qualche miracolo nel sogno riesco a sollevare le palpebre e ad aprire gli occhi, mi coglie ancora una volta il panico perché ciò che mi osserva di rimando è il buio completo, così nero e denso da sembrare concreto.   


So cosa cerco nei libri, le cose che mi piace trovare. 
Sono cose che conosco e riconosco - cose che ho visto o che ho vissuto o che ho provato. 
Sono cose che fanno di parte di me - che faranno parte di me per sempre. 

Sono anche le stesse cose che allo stesso tempo, in un circolo vizioso, non fanno altro che alimentare quel veleno e quel marcio dentro di me che ristagna
Le cerco come una forma di espiazione e di esorcismo e invece non faccio altro che gettare benzina sul fuoco.

Mi sembra di non conoscere - o ricordare - qualcosa di diverso 

Ho ripensato a Thirteen Reasons Why di Jay Asher. 
Ho ripensato alle piccole cose che si accumulano fino a diventare qualcosa di totalmente fuori controllo. 

Ho pensato che sono stanca.

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