martedì 27 settembre 2016

Ho passato parecchio tempo in macchina con i miei genitori in questi ultimi giorni perché avevamo dei giri da fare e come sempre, quando guida mio padre e io sono nel sedile posteriore, è mia abitudine mettermi le cuffie dell'iPod. 

E perdermi nella mia testa, esattamente come i miei occhi si perdono guardando fuori dal finestrino. 

Quando avevo tredici anni ho cominciato a diventare ossessionata dalla musica perché non sopportavo più il silenzio. 
Il silenzio mi mandava in crisi, mi faceva cadere nei vortici peggiori che la mia mente fosse in grado di creare e avevo bisogno di qualcosa che coprisse - che riempisse - quel vuoto. 
E la musica è diventata la mia distrazione, la mia anestesia, la mia fuga da quei pensieri che il silenzio portava con sé. 

Cinque anni dopo la situazione era ancora più o meno quella, ma ancora più intensa perché le band che già ascoltavo non mi bastavano e avevo bisogno di scoprirne sempre di più - come una drogata in cerca di una dose consapevole che una dose ormai non è più sufficiente e che ce ne vogliono altre per far stare finalmente zitto il mondo. 

Quando sono uscita da quei due anni, la cosa pian piano ha iniziato a scemare. 
Amavo sempre la musica, ancora la ascoltavo, ancora cercavo nuovi suoni, ancora ne avevo bisogno ma non era più qualcosa di viscerale - qualcosa che mi annullava. 
Ho cominciato a sperimentare il silenzio e pian piano ho iniziato ad amarlo perché avevo bisogno di fare il punto della situazione e con la mente annegata nelle note musicali non ci sarei mai riuscita. 

Mi sto rendendo conto che la mia vita si ripete secondo sempre gli stessi cicli - ogni tot anni le cose accadono sempre nello stesso modo. 

Avevo bisogno di fare il punto della situazione e di me stessa. 
E come a quindici anni ho ricominciato a scrivere su un diario fatto di carta nel quale ho riversato tutto il veleno che avevo dentro sotto forma di inchiostro, così a venti ho messo in pausa e scelto il silenzio - silenzio che già mettevo in pratica da due anni con lo sciopero delle parole con tutti quelli che mi circondavano. 

La musica non mi ha mai abbandonata, ma da quando ho smesso di usarla come strumento per mettere a tacere tutto quanto è diventata un po' come quel silenzio che tanto temevo una volta - ovvero capace di farmi perdere nei miei pensieri in una spirale apparentemente senza fine. 

Ma con una differenza. 

Paradossalmente, nella mia ricerca ossessiva di nuove band e nuovi suoni, cercavo nuovi suoni che fossero più forti della "dose" precedente - per me la musica si era ridotta alla stessa stregua del "rumore bianco". 
Avevo bisogno di rumore, ne volevo sempre di più e immagino sia in questo modo che sono arrivata allo screamo. 

A vent'anni - ma anche prima in realtà, quando già a diciannove anni ho ricominciato a tornare me stessa, ma mai quella di una volta - ho cominciato ad ascoltare davvero le parole e a capire
E tutto improvvisamente era molto più chiaro, canzoni che amavo alla follia inconsapevolmente le avevo scelte perché parlavano perfettamente di me. 

Da allora la musica è diventata come quel diario scritto a quindici anni - è diventata la mia cura in un modo che prima era malato ma che ora dava segni di ripresa. 

Perdersi nel silenzio e perdersi nella musica per me sono due cose molto diverse. 
Nel silenzio ho imparato a destreggiarmi, ma a volte è molto pericoloso - a volte, se sono in un brutto periodo mi fa scivolare in quella spirale autodistruttiva che devo evitare a tutti i costi. 
Nella musica invece, nonostante il rischio di chissà quali ricordi che possono venire risvegliati, è sempre illuminante - e a volte fa male, non lo nego, ma è come sbucciarsi un ginocchio e avere subito un cerotto sulla ferita. I ricordi che le parole hanno portato con sé feriscono, ma la melodia ammorbidisce l'atterraggio. 

Perdersi nei pensieri che la musica porta a galla è come togliere veleno da una ferita, è come riversarlo sul quel diario sporcandone la pagine immacolate con l'inchiostro. 

Nel mio iPod ci sono diverse playlist, ma di solito ascolto sempre quella chiamata come il mio nickname - quella dove tengo tutte le band della mia vita. 
Poi c'è una playlist con le colonne sonore dei film e c'è un'altra playlist con altra musica che mi piace, ma che non ascolto più tanto spesso. 
E infine c'è una playlist dedicata alla band italiane emergenti che ho amato e che ho avuto la fortuna di vedere live una o più volte oppure mai. 

E qui torniamo a miei 19/20 anni, quando tutte queste band (quasi tutte romane) sono entrate nella mia vita e l'hanno segnata. 
The Electric Diorama, Hopes Die Last, Vanilla Sky, Airway, My Last Fall, The Glamour Manifesto, Your Hero - ognuna di loro speciale per un motivo, ognuna vista live (tranne gli Hopes Die Last) almeno una volta nella mia vita. 

E i miei ricordi di quei due anni sono pieni di concerti, di cotte per i cantanti e di serate in compagnia e viaggi in treno. 

Normalmente ascolto sempre la playlist rinominata con il mio nickname, ma in questi giorni ho voluto cambiare e protagonisti di questo cambiamento sono stati Hopes Die Last, My Last Fall e The Electric Diorama. 

E con i primi album degli Hopes Die Last e dei The Electric Diorama avevo davanti quella neo-diciannovenne ancora reduce da quei due anni infernali, ancora con il ciuffo di capelli troppo lungo, ancora con gli occhi troppo truccati, ancora con il bisogno di mettere a tacere il mondo, ancora troppo silenziosa, ancora troppo a pezzi, ancora troppo instabile. 
Ma è incredibile quello che sono ancora in grado di darmi queste due band. 

Ma il primo album dei The Electric Diorama non mi ricorda solo quella ragazza ancora instabile. Mi ricorda l'emozione di averli visti live la prima volta, mi ricorda l'emozione di un locale quasi vuoto in una sera di ottobre a Bologna nella quale aprivano per i Kill Hannah e la dedica della mia canzone preferita di quell'album a me a alla mia amica di Milano che eravamo sotto il palco - fedelissime. 
Mi ricorda la traccia musicale di quell'album che avevo messo come suoneria, mi ricorda l'emozione di conoscerli e di parlare con loro, mi ricorda l'emozione di quando hanno accettato la mia richiesta di amicizia su Facebook (ancora presente), mi ricorda le canzoni imparate a memoria e cantate a squarciagola. 
Mi ricorda il loro secondo concerto - ancora a Bologna, ad aprire per un'altra band straniera - ma stavolta accompagnati da un'altra band romana, i My Last Fall. 

E l'unico album dei My Last Fall mi ricorderà sempre quella tiepida serata di maggio del 2010 - quell'arrivo a Bologna nel pomeriggio, quella ricerca frenetica dell'albergo, quella cena mangiata con i nervi a fior di pelle per motivi che se ancora ci ripenso rido, quelle tre band e la loro musica e il post-concerto.

Se a quindici anni mi sentivo invincibile e padrona del mondo con tutte le possibilità ai miei piedi pronte per essere colte, ascoltando in questi giorni queste tre band mi sono resa conto che a vent'anni avevo provato la stessa vertigine e lo stesso stato di esaltazione - non ero più un'adolescente, ero all'università e me ne andavo in giro in treno con una mia amica di Milano per seguire queste band di Roma nei loro concerti. 

Queste band mi ricorderanno per sempre la ragazza uscita da quei due anni terribili che, in qualche modo, aveva ritrovato il sorriso. 
E a queste condizioni, perdersi nella propria testa non è affatto male. 

And all will see
They were wrong about me
So long good life
Is your heart still mine?

On air: My Last Fall - What Pages Hide

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