venerdì 4 marzo 2016

Ci ho messo quasi un mese a finire il libro che stavo leggendo - e non perché non fosse bello. 

Ma del libro in sé ne parlerò più tardi e soprattutto altrove - e con questa frase mi riferisco al nuovo blog che ho aperto e a cui faccio pubblicità senza vergognarmi nemmeno un po': Some Books Are
Ne parlerò altrove perché questo è il mio blog personale e ci sono cose che vanno scritte qui e non nella recensione di un libro. 

Il libro in questione è Thirteen Reasons Why di Jay Asher. 
Si tratta di un altro di quei libri che fanno male - malissimo - e che io leggo apposta proprio per questo motivo. 

Clay torna a casa un giorno da scuola e trova un pacco senza mittente sulla soglia di casa sua, un pacco che contiene sette audiocassette con dipinti sopra con dello smalto blu numeri che vanno dall'uno al tredici. 
Dopo essersi interrogato sulla loro provenienza e dopo aver trovato un modo per ascoltarle, Clay rimane agghiacciato nel sentire la voce di Hannah Baker - la voce della ragazza per la quale aveva una cotta e che si è suicidata un paio di settimane fa. 
La ragazza che nell'introduzione alla sua storia spiega che ogni lato delle audiocassette è "dedicato" ad una persona, che ognuna di quelle persone ha contribuito alla sua decisione di farla finita. 
La ragazza che obbliga tutti i partecipanti alla lista a sentire le cassette una per una e fino alla fine, pena la diffusione di un secondo set di cassette che verrà reso pubblico da qualcun altro e che metterà a nudo tutti gli sporchi piccoli segreti delle persone coinvolte. 
E Clay, sconvolto, non può fare altro che ascoltare Hannah raccontare la sua storia e temendo il momento in cui arriverà il suo turno - pur non sapendo in che modo possa aver contribuito. 

Ci ho messo quasi un mese a leggerlo e non perché l'ho letto in inglese o perché fosse scritto male. 
Ci ho messo quasi un mese a leggerlo perché continuavo a trovare scuse per non andare avanti nonostante fossi spinta ad arrivare alla fine di ogni "lato" - A o B che fosse - per scoprire chi sarebbe stato il prossimo della lista. 
Ci ho messo quasi un mese a leggerlo perché è un libro "difficile" - non è stato difficile per la scrittura o la lingua come ho già detto. 
Lo è stato per la tematica perché è stato uno di quei libri che ha risvegliato cose dentro di me che so essere pericolose e che è meglio lasciare dormire finché la quiete dura. 

Non è un mistero per nessuno qui il fatto che io sia un'autolesionista. 
Non ho mai fatto nemmeno mistero che a tredici anni mi sono guardata allo specchio e ho visto un'estranea fissarmi di rimando e che, come se non fossi più cosciente, ho sfilato la cintura dai miei jeans e me la sono stretta al collo stringendo sempre più - fissandomi intanto allo specchio fino a quando non sono tornata alla realtà. 

Leggere questo libro è stato un pugno nello stomaco. 

Hannah elenca tredici motivi che l'hanno spinta a suicidarsi e come spiega lei, non sono i tredici motivi in sé la causa. 
Sono tutte le cose che si sono accumulate, sono quella palla di neve che assume le proporzioni di una valanga inarrestabile. 
Perché agiamo senza pensare, senza conoscere gli altri e la loro vita, senza sapere che una cosa che per noi è un'inezia per qualcun altro può essere un problema. 
Perché ogni cosa influenza tutto il resto. 
Perché tredici anni forse sono pochi e qualcuno potrebbe obiettare che a quell'età non hai vissuto per un cazzo e che non hai giustificazioni per provare a suicidarti, ma nessuno poteva sapere quello che stava succedendo nella mia vita. 
Tutte quelle persone che mi chiedevano il perché del mio comportamento e perché non parlassi e che non dovevo prendermela per una cosa così piccola non sapevano che anche le cose piccole, una volta messe insieme vicine, diventano enormi. 

You don't know what went on in the rest of my life. At home. Even at school. You don't know what goes on in anyone's life but your own. And when you mess with one part of a person's life, you're not just messing with just that part. Unfortunately, you can't be that precise and selective. When you mess with one part of a person's life, you're messing with their entire life. 
Everything... affects everything.

C'è una scena nel libro nella quale Hannah racconta di come - durante una lezione che in inglese si chiama Peers Communication e che non ha una vera corrispondenza ad una lezione italiana e non so come l'abbiano tradotta in italiano, ma ci andiamo vicino con un qualcosa come Scienze Sociali - abbia scritto un biglietto anonimo chiedendo che nella discussione della lezione successiva si parlasse di suicidio perché lei iniziava a pensarci un po' troppo spesso e non sapeva di iniziare a mostrare già i primi segnali di allarme. 
Perché era il suo sottile e discreto modo di chiedere aiuto e sperava che qualcuno vedesse in lei quei cambiamenti che avrebbero fatto in modo che qualcuno la fermasse. 

Ma quello che è successo nella lezione successiva non è stato quello che lei si aspettava. 
Tutti parlavano della cosa con irritazione, erano irritati dal fatto che la persona in questione non si fosse esposta firmando con il proprio nome - come se sapere il nome e i dettagli della persona fosse fondamentale per parlare dell'argomento a dovere. 
E infine c'è stata questa ragazza che ha affermato che non firmandosi, la persona che aveva scritto il biglietto voleva soltanto ricevere attenzione. 

Una cosa simile è accaduta anche a me, però molti anni dopo quel primo tentativo di suicidio. 
Ero ancora in quei due anni infernali, ma non ricordo se era la fine del quarto anno di liceo oppure l'inizio del quinto - ricordo che comunque mi tagliavo quasi tutti i giorni. 
Non ricordo che lezione fosse e quindi non ricordo nemmeno il professore - non ricordo se era la lezione di pedagogia con l'insegnante che aveva annunciato con una indelicatezza che ancora mi fa accapponare la pelle davanti a tutta la classe che io mostravo segni di autismo. 

Il punto è che in qualche modo il discorso era finito sull'autolesionismo e davvero, le cose si sono svolte un po' come nella storia di Hannah. 
C'erano queste mie compagne di classe che si erano messe a discutere su come non capissero le persone che sceglievano volontariamente di farsi del male e cosa le spingesse e che, alla fine, cercavano solo di ottenere attenzione. 
E io ero lì, seduta al mio banco, divisa tra la voglia di tremare e nascondermi perché non mi scoprissero e quella di alzarmi in piedi e di urlare. 

Volevo gridare loro che, se volevano risposte, bastava che mi guardassero. 
Volevo urlare e chiedere se non notassero niente di diverso in me, se non notavano come avessi preso a nascondermi in vestiti più grandi di me o le occhiaie che avevo perché non dormivo oppure il trucco pesante nero. 
E avevano notato il fatto che non parlassi più e non guardassi più nessuno negli occhi? 
Avevano notato il fatto che indossassi polsini costantemente e che quella volta che il professore di ginnastica voleva insegnarci a sentire il battito dal polso, io sono quasi svenuta a causa del panico che avevo iniziato a provare quando si è avvicinato a me per il terrore di essere scoperta? 

Ma sono stata zitta. 
Sono rimasta seduta al mio banco e sono rimasta in silenzio, ascoltandole farmi a pezzi senza che sapessero che era di me che stavano parlando. 

Se avessi voluto l'attenzione della gente, sarei andata in giro con le maniche della felpa tirate su e avrei sventolato il mio polso sinistro sotto il naso di tutti. 
E invece facevo di tutto per nascondermi e inventavo scuse su scuse perché non volevo attenzione - io volevo aiuto. 

Ma quando le persone attorno a me hanno iniziato ad accorgersene era già troppo tardi, avevo imparato a fare a meno di loro e a gestire da sola me stessa. 
Io mi sono aiutata da sola perché quella lametta è stata - forse è ancora - la mia malattia, ma è stata anche la mia cura. 
Sarebbe bastato prendere il bloc-notes sul quale scrivevo e disegnavo sempre durante le lezioni da sotto il mio banco in un momento in cui non fossi stata presente per leggere tutta la merda che riversavo su quelle pagine, per vedere i disegni stilizzati di una persona impiccata che penzolava da una corda e gli innumerevoli disegni di lapidi. 

Stavo male, ma nonostante i segnali fossero tutti lì e fossero chiari, nessuno li coglieva - anzi, tutti continuavano ad aggiungere schifo su schifo. 

Una volta - forse in un post dell'estate del 2014 - ho scritto che so di non essere a rischio suicidio da molto tempo però non posso negare che il pensiero, quando il controllo mi scivola tra le mani, ogni tanto torna a farmi visita. 
Ma so controllarmi, un po' perché è stata proprio quella lametta a mettere un limite al mio farmi del male e un po' perché l'indifferenza un giorno mi è venuta in soccorso e ha anestetizzato tutto. 
Avrebbe potuto finire male e in più di un'occasione, ma poi le cose sono migliorate e so di non essere più a quel punto della mia vita - che io la mia valanga sono riuscita a scamparla. 

E ogni giorno spero di non ritrovarmi sotto una montagna di neve. 

On air: Ne-Yo and Cher Lloyd - It's All Good 

2 commenti:

  1. In bocca al lupo per il tuo nuovo blog! Anch'io ho iniziato così ne ho aperto prima uno generico e poi quello dedicato ai libri ^__^

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    1. Ti ringrazio per gli auguri e anche per l'invito che mi hai lasciato sull'altro mio blog! :)

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