venerdì 5 febbraio 2016

A quindici anni mi sentivo invincibile, spregiudicata, senza alcuna paura e con l'impressione di avere il mondo ai miei piedi e di poter ottenere tutto quello che volessi - con la sensazione di avere il controllo su qualsiasi cosa e con quella medesima sensazione che mi dava letteralmente alla testa.

A quindici anni non capivo un cazzo.

Ricordo quella versione di me stessa, quella che aveva ricominciato a scrivere dopo tanto tempo.
Quella che era sopravvissuta al primo anno di liceo e a quell'attacco di panico assolutamente paralizzante, tanto che era quasi svenuta per la mancanza di ossigeno nei polmoni.
Quella che voleva capire il passato, analizzarlo in ogni suo più piccolo e sporco angolo per capire cosa fosse andato storto e per avere quindi il controllo sul presente.
Il controllo sugli altrettanti piccoli e sporchi angoli del presente.

Ricordo tutti quei testi di canzoni scritti su quelle pagine rosa, verdi e azzurre profumate.
Ricordo quella tua foto che avevo messo in mezzo a quelle pagine, quella che mi faceva arrossire ogni volta che la guardavo - quella che mi aiutava a passare i giorni nell'attesa di vederti anche solo di sfuggita.
Ricordo le descrizioni di quell'estate, ricordo i miei jeans azzurro chiaro, ricordo i miei Dr. Martens ai piedi nonostante il caldo perché quelle vesciche e cicatrici che mi ero fatta alle caviglie dovevano pur contare qualcosa, ricordo quella maglietta nera - la stessa che indossavo anche quell'estate nella quale ti ho conosciuto -, ricordo i miei mille braccialetti di plastica colorata ad entrambi i polsi.
Ricordo le risate, ricordo quella prima vodka alla menta e la corsa a perdifiato con la vista annebbiata dall'alcol, ricordo la sensazione di sentirmi finalmente bella.

Non mi sono mai più sentita così.

Ricordo tutte le analisi che ho fatto su me stessa, tutte le domande che mi sono posta e le risposte che mi sono data.
Ricordo litri di inchiostro finiti su pagine che ancora contengono la descrizione delle parti di me stessa che erano già marce all'epoca e che ancora ero convinta di poter nascondere al mondo - perché quel mondo lo controllavo io.
Ricordo il momento in cui ho realizzato che il profumo delicato di quelle pagine non poteva dissimulare la puzza di tutto quello che aveva già iniziato ad andare a male.
Ricordo le mille volte che mi sono reinventata, ricordo le mille maschere e i mille costumi che ho indossato - ricordo la cura con cui erano perfettamente allineati e pronti all'uso a seconda di quale mi servisse all'occasione e soprattutto a seconda di chi mi trovassi davanti.
Ricordo tutti i ruoli che ho interpretato, ma che bene o male alla fine riportavano lo stesso a quella persona marcia che tentavo di seppellire in quelle pagine e che un lucchetto non poteva tenere rinchiusa.

Ricordo la fine di quell'estate e l'avvicinarsi dell'inizio della seconda superiore.

Ricordo la decisione cosciente di smettere di essere uno zerbino per gli altri, di riuscire a dire di no e non sempre sì, di diventare più egoista.
Ricordo la decisione cosciente di diventare meno ingenua e più fredda e calcolatrice, di lasciar vedere chi fossi davvero solo alla mia migliore amica e di indossare una maschera con tutto il resto del mondo - perché il resto del mondo non meritava di sapere cos'era successo negli anni precedenti.
Ricordo la decisione cosciente di prendere il controllo di me stessa e di mantenerlo anche quando sarei stata tentata di cedere.
Ricordo la decisione cosciente di smettere di prendersi le cotte.

Ricordo la decisione cosciente di smettere di provare sentimenti.

A quindici anni ho preso una decisione drastica che ha messo radici da qualche parte e che mi ha cambiato la vita senza che me ne rendessi conto.
A quindici anni ho innescato qualcosa che non ho saputo fermare in tempo perché non sapevo i sintomi con i quali si sarebbe presentato.

All'inizio ha funzionato solo per un po' di tempo.
Ricordo quei primi mesi di scuola - la maschera di ragazzina fredda e controllata è durata solo fino a metà novembre.
Mi dicevo che le prese in giro non avevano più lo stesso effetto su di me e che mi scivolavano addosso senza neanche sfiorarmi, ma sentivo le prime crepe eppure ho ignorato la cosa.
Mi dicevo che lasciare andare il controllo per cinque minuti non avrebbe pregiudicato tutto il resto del lavoro.
Mi dicevo che quel ragazzo di ragioneria al quinto anno era carino, ma tutto lì - non c'era bisogno di farsi venire il batticuore per questo.
E poi è arrivato il primo anniversario della morte di mio nonno e con lui anche tutti i miei sensi di colpa e improvvisamente mi sono resa conto che non ero in grado di sopportare la pressione di quello che mi ero imposta - che avevo preteso troppo da me stessa in troppo poco tempo.
E sono crollata.
Le prese in giro ferivano come lame, non riuscivo a racimolare nemmeno cinque minuti di quel fantomatico controllo che credevo di possedere, l'aver notato quel ragazzo si è presto trasformato in una cotta della durata di quattro mesi.
E dopo essermi punita a parole e a suon di canzoni per mio nonno, mi sono rimessa in piedi e ho ricominciato da capo.

Stavolta avevo deciso di prendermela con più calma, di prendermi il tempo di essere più precisa e accurata.
E allora lasciavo che mi ferissero un minimo, ma la maggior parte della mia concentrazione era volta a costruire una maschera che stavolta fosse efficace e con la consapevolezza che andava curata e corretta ogni giorno.
Ed entravano sempre meno spiragli di vita esterna e mi sarei resa conto solo molti anni più tardi che, mentre ero occupata a chiudere il mondo e tutti i suoi abitanti fuori, io intanto mi imprigionavo da sola dentro me stessa.
Ma avevo trovato un equilibrio e tanto mi bastava, il resto non mi interessava.

Al secondo tentativo è durata poco più di un anno - ero me stessa con le persone di cui mi importava e a cui importava a loro volta di me ed ero fredda e indifferente verso il resto del mondo.
A volte ero indifferente anche nei confronti della mia persona - un giorno mi sono accorta che le mie cotte duravano sempre meno perché poi mi annoiavo e proteggevo me stessa dicendomi che non valeva la pena sprecare energia e quel che mi era rimasto di sentimentale per qualcuno che non mi avrebbe mai ricambiata.
Avevo sedici anni e non mi sentivo più bella come l'anno precedente - mi accorgevo del modo in cui veniva guardata e trattata la mia migliore amica e come invece venivo guardata io.
Fingevo di non vederlo, ma lo vedevo.
Fingevo che non mi importasse, ma mi importava.

Ma anche stavolta avevo sbagliato qualcosa nel processo perché verso i diciassette anni la terra ha iniziato a tremarmi sotto i piedi.
Solo lievi scosse all'inizio - la mia migliore amica aveva nuovi amici ed usciva con loro senza nemmeno invitarmi, ma non significava niente, vero? Il ragazzo che le piaceva sembrava ricambiare, ma questo non significava che tutto sarebbe stato stravolto, vero?
Lievi scosse che hanno iniziato a far venire in superficie tutte quelle insicurezze che credevo di aver messo a tacere anni prima.
Sentivo improvvisamente gli aghi pizzicare la mia pelle, sentivo i nervi saltare, sentivo la nebbia dell'indifferenza che iniziava a diradarsi, sentivo le menzogne incespicare sulle mie labbra.
Sentivo il controllo della situazione e della mia vita sfuggirmi tra le dita senza che io riuscissi a riafferrarlo, ma l'ho ignorato.

L'ho ignorato finché ho potuto - ho finto di non sentire le scosse più forti, ho finto di non vedere le crepe nei muri, ho finto di non vedere il soffitto venire giù, mi sono imposta di restare quando sappiamo tutti che io al primo cenno di allarme me la do a gambe.
Ho finto di non sentire le fondamenta scricchiolare nella notte, ho finto di non vedere le voragini nel pavimento finché tutto non è crollato e io sono crollata con il resto.

Sappiamo tutti fin troppo bene come si sono svolti i due anni successivi, fino a quando una mattina ho aperto gli occhi e quell'indifferenza che tanto avevo cercato di trattenere alla fine si era arresa a me di sua spontanea volontà.
Stavolta il mio egocentrismo, il mio menefreghismo verso le persone, la mia incapacità di provare sentimenti e sensazioni erano genuini - non erano qualcosa che avevo tentato di costruire artificialmente.

Era un'infezione, era stata come una febbre che non riuscivo a debellare - una di quelle che devono toccare i picchi più alti prima di potersene finalmente andare sconfitte.
Una di quelle che devono fare più danni possibili nel tempo che hanno a disposizione.

Avrebbe dovuto essere il contrario di come in realtà è stato - l'indifferenza avrebbe dovuto essere l'infezione che una volta sconfitta mi avrebbe restituito la persona che una volta ero e che avrei sempre dovuto essere.
Invece no.
Invece i miei picchi di infezione sono stati i crolli durante i quali sono stata totalmente in balia di tutto quello che sentivo e che avevo tentato di reprimere per anni.

Sono sempre stata cagionevole di salute - bronchite tutti gli anni e alle medie avevo l'appuntamento fisso con l'influenza a metà febbraio.
Passavo una settimana intera a casa da scuola con tosse, raffreddore, mal di gola e febbre.

Nel febbraio del 2002 mi sono presa come di consueto l'influenza, ma sono arrivata ad avere - l'unica volta finora nella mia vita - la febbre fino a 40,5°C.
Stavo da cani, ricordo me stessa sdraiata in divano con addosso qualcosa come sette plaid e incapace di smettere di tremare - avevo la febbre così alta, avevo così freddo che sembrava che io avessi le convulsioni.

Mi prendevo l'influenza una volta all'anno, avevo l'appuntamento fisso a metà febbraio ma in quel 2002 me la sono poi presa anche a dicembre.
Un'influenza lieve, qualcosa di poco conto rispetto allo shock di inizio anno, qualcosa che impallidiva in confronto a quella febbre a 40,5°C e alle convulsioni che il mio corpo cercava di combattere.
Nel 2002 mi sono presa due volte l'influenza e da quell'anno in poi non me la sono più presa.
Raffreddori e mal di gola a iosa, ma influenza intesa nel senso comune del termine mai più.
Le mie febbriciattole non hanno mai sfiorato i 38 gradi, le uniche volte in cui mi è tornata la febbre a trentanove e passa sono state quelle in conseguenza dell'aver vomitato tutto il giorno prima a causa di un virus allo stomaco.
Anche qui ci sarebbe da ridere se penso che la prima volta che mi è successo è stato martedì 15 gennaio 2008 e la seconda volta che mi è capitato è stato a distanza di cinque anni, sempre di martedì 15 gennaio.

Le mie infezioni, da quel 2002, hanno sempre proporzioni epiche e si protraggono per un tempo davvero esagerato.
Penso alla mia bronchite nei mesi di gennaio e febbraio del 2009, che non passava come al solito e quando mi sono finalmente decisa a farmi visitare con tanto di lastre d'urgenza, si è scoperto che avevo un focolaio nel polmone sinistro che stava per diventare polmonite.
Quella bronchite mi ha lasciato addosso segni non indifferenti, tanto che quando dormo poco e mi prendo poca cura di me stessa ho come l'impressione che le mie costole stiano per stritolare i miei polmoni in una morsa tanto mi manca l'aria.
Mi ha lasciato segni non indifferenti, ma se negli anni successivi mi è tornata la bronchite è stata qualcosa di davvero poco conto - come quella seconda influenza nel 2002.
Penso alla mia otite, cominciata proprio in questa esatta settimana di febbraio un anno fa, cominciata con un banale mal di gola e un vago accenno di sinusite e che si è trasformata in un incubo durato fino quasi ad aprile.
Mi sono devastata lo stomaco con antibiotici e anti-infiammatori e le orecchie ogni tanto ancora mi fanno male e fanno "cic" quando deglutisco.

Mi rendo conto soltanto ora che la mia vita interiore sembra quasi lo specchio della mia salute.
I miei primi due crolli sono paragonabili a quelle normali influenze che mi prendevo ogni anno, prima di tornare al mio stato normale.
Il mio crollo nel 2006 con i conseguenti due anni di inferno è paragonabile a quell'influenza con la febbre a più di quaranta e le convulsioni dal freddo e a quel giorno in cui non riuscivo più a respirare perché la tosse non mi dava tregua e stavo per sputare un polmone e a quella domenica mattina di un anno fa in cui mi sono svegliata piangendo per il dolore all'orecchio e al viso e i miei genitori hanno dovuto chiamare la guardia medica.

Quel crollo ha lasciato segni non indifferenti, ma poi sono tornata in salute - i sentimenti erano la mia infezione, quelli che hanno fatto il maggior danno alla mia persona prima di andarsene e lasciarmi in pace.
Prima di restituirmi la mia temperatura corporea normale, il mio respiro normale e il mio consueto udito.

A quindici anni ho innescato qualcosa che ha fatto in modo e maniera che la persona che ero fosse vista come una minaccia, un'infezione che era necessario combattere e debellare.
Un'infezione per la quale l'unica cura era l'indifferenza.

Lo scrivo ogni tanto - i nervi ancora qualche volta saltano, le lacrime ancora qualche volta mi scivolano sul viso, il controllo ancora qualche volta mi sfugge.
Ma tutto questo è paragonabile a quelle febbriciattole che ho avuto nel corso degli anni, quelle cose minime per le quali l'influenza non ha mai pensato di tornare a scomodarsi. 


On air: Simple Plan - Opinion Overload

Nessun commento:

Posta un commento