lunedì 24 novembre 2014

"I'd like to do a top five records that make you feel nothing.
[..] They belong to me, not to me and Laura,
or me and Charlie, or me and Alison Ashworth,
and though they'll make me feel something,
they won't make me feel anything bad."

Sto leggendo High Fidelity di Nick Hornby. 
Si tratta del primo libro che leggo di questo scrittore, sebbene lo conosca di nome da molti anni. 
Conosco di fama About a Boy, visto che poi ne è stato fatto un film con Hugh Grant e Nicholas Hoult quando era ancora un bambino e conosco la sceneggiatura di An Education, film che ho in DVD nella mia collezione personale.

Si tratta comunque della prima volta che ho a che fare con qualcosa di scritto davvero di suo pugno e so che ne è stato poi fatto un film con John Cusack protagonista - e io continuo ad avere una specie di cotta per lui perché per me sarà sempre il tenero imbranato de I Perfetti Innamorati - ma non l'ho mai visto, e chissà, magari una volta che avrò finito il libro, poi mi deciderò a guardarlo.

Ho comprato questo libro ancora a maggio, attratta dalla trama e dal nome dello scrittore di cui avevo sempre sentito parlare ma mai letto, ma lo leggo solo ora perché ho sempre quella famosa pila infinita di libri da leggere e com'era stato poi nel caso del film The Eternal Sunshine of the Spotless Mind, ero convinta che ci dovesse essere un tempo giusto per poterlo capire e gustare davvero. 

E avevo ragione.
Non sono nemmeno ad un quarto del romanzo ma posso già dire che, indipendentemente da come andrà a finire, questo è uno dei libri della mia vita - di quelli che mettono radici nella tua anima e che nemmeno l'oscurità e l'assenza di ossigeno possono uccidere. 

Lo sto amando, esattamente come ho amato i libri di Matthew Quick che ho letto finora. 

C'è musica, ci sono cuori spezzati, ci sono pensieri filosofici sull'amore e sulle relazioni, c'è Rob che si mostra forte dicendo che la fine della sua storia con Laura non porta niente di nuovo che le cinque rotture della sua top five non abbiano già causato ma alla minima cosa si trova a sentire terribilmente la sua mancanza, c'è ancora Rob che inganna se stesso e il tempo organizzando in maniera ogni volta diversa i dischi della sua collezione e si sente orgoglioso quando solo lui capisce il suo sistema, c'è sempre Rob che "I was kidding myself that there was something I could go on to, an easy, seamless transition to be made. I can see that now. I can see everything once it's already happened - I'm very good at the past. It's the present I can't understand."

Leggo e mi rendo conto che sono esattamente come Rob.

Ci sono tutti questi discorsi sulla musica come quello che ho quotato all'inizio del post e che mi fanno pensare con una lucidità che forse prima non avevo mai avuto e che mi fanno davvero rendere conto del perché non io ascolti più certi gruppi, sebbene li amassi.
E mi rendo anche conto del perché io forse ascolti sempre e solo gli stessi artisti e del perché io li ami come li amo: perché se anche c'è qualche canzone loro che mi ricorda determinate cose o persone, il resto invece è solo mio. 
Loro sono miei.
Loro sono miei e non li condividerò mai con nessuno e non permetterò mai a qualcuno di portarmeli via e di privarli del significato e dell'importanza che hanno per me. 
"I never really got over Charlie. That was when the important stuff, the stuff that defines me, went on. [..] ...some of these songs I have listened to around once a week, on average (three hundred times in the first month, every now and again thereafter), since I was sixteen or nineteen or twenty-one. How can that not leave you bruised somewhere? How can that not turn you into the sort of person liable to break into little bits when your first love goes all wrong? What came first? The music or the misery? Did I listen to music because I was miserable? Or was I miserable because I listened to music? Do all those records turn you into a melancholy person?"

On air: Bush - The Only Way Out

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