sabato 4 agosto 2012

La prima volta che ho scelto l'autolesionismo di mia spontanea volontà per non cedere ad un attacco d'ansia, forse avevo undici anni.
O forse dodici, non ricordo bene.
Era stato estremamente naturale piantarmi le unghie di una mano in un avambraccio per distrarmi dall'aria che mancava dai miei polmoni in quel momento e che mi impediva di respirare.

La prima volta in cui sono realmente fuggita da una situazione e poi mi sono chiusa nel silenzio avevo tredici anni.
Ho visto la realtà davanti ai miei occhi e la prima cosa che la mia mente e il mio istinto hanno urlato, prima che il dolore mi sopraffacesse del tutto, è stata "scappa e non farti più vedere".
Peccato che quando sei in una palestra durante la lezione di ginnastica non puoi andare molto lontano e non puoi nemmeno sperare di nasconderti per sempre.
Ed è stato lì che ho realizzato che sì, mi avevano stanata fisicamente, ma che almeno potevo stare zitta e nascondermi psicologicamente.
Potevo vedere distintamente una piccola Alice nella mia testa rannicchiarsi su se stessa nell'angolo più remoto e buio di me, sperando di non essere mai trovata.
E dopo - quando tutti pretendevano risposte e spiegazioni al mio crollo - ho cominciato a creare scuse e bugie per tenere lontano tutti dalla verità, sperando così di riuscire a fuggire almeno in qualche modo.
E se poi tutti prestavano più attenzione al suono delle parole piuttosto che al loro vero significato, non era un mio problema.
Anzi, si può dire che ne fossi anche contenta perché significava che nessuno sarebbe ritornato e mi avrebbe pressata per altre spiegazioni con altre domande.

La prima volta che ho seriamente pensato di andarmene da qui avevo quindici anni e avevo appena iniziato a mettere nero su bianco tutto ciò che c'era di sbagliato in me, tutti i miei errori e tutti i miei fallimenti.
Tutta la cattiveria della gente che mi circondava, tutto il mio dolore e tutte le mie debolezze.
Così ho cominciato a pensare ancora di fuggire ed è stato qui che la fuga non è stata più legata alla situazione del momento che faceva scattare la molla, ma bensì ha cominciato a diventare un pensiero fisso, un vano tentativo di fuggire anche da me stessa.
Ero presente fisicamente e sembravo prestare attenzione alle parole delle persone che mi circondavano, ma una parte della mia mente era costantemente rivolta al pensiero e al desiderio di essere da un'altra parte.
Di non essere me.
La fuga era diventata il mio rifugio sicuro, il posto in cui nascondermi e molto spesso, se non potevo fuggire fisicamente allora fuggivo con la mente.
Solo il pensiero di correre via e nascondermi spesso era sufficiente a farmi guadagnare un po' d'aria, a rendermi di nuovo capace di respirare per un istante.
Ricordo che proprio smettevo di ascoltare chiunque fosse lì con me in quel momento e immaginavo di essere più grande e di essere da sola, in un posto dove nessuno mi conosceva.

Quando ho cominciato a pensare di andarmene via da qui avevo quindici anni e forse avevo già realizzato troppe cose su di me e sulla mia vita.
Cose che sapevo non sarei stata in grado di aggiustare perché ero già spezzata all'epoca.
Immaginavo solamente di andarmene e non prendevo mai in contemplazione altri elementi che avrebbero potuto far parte del quadro complessivo della mia vita, forse perché comunque avevo ancora persone reali a cui potermi aggrappare.
Persone che anche se mi avessero stanata in uno dei qualsiasi nascondigli che avevo costruito nel corso degli anni, non avrebbero cercato di tirarmi fuori ma si sarebbero sedute di fianco a me.

Ma poi le persone se ne sono andate e nei momenti in cui ero a galla e non rischiavo di ingoiare troppa acqua e annegare, riuscivo solamente a giurare a me stessa che non avrei permesso a nessun altro di tenermi legata a sé.
Che io non mi sarei più permessa di legarmi a qualcun altro.
Uno dei miei tanti problemi è che io mi sono sempre sentita le catene troppo strette attorno ai polsi e attorno al collo.

Quando le cose si facevano pesanti comunque, indipendentemente dal fatto di avere ancora qualcuno accanto o meno, immaginavo di prendermi su un giorno e sparire.
Continuavo ad immaginare me in giro per strade sconosciute, in mezzo a facce sconosciute e con meno relazioni interpersonali possibili.
Immaginavo proprio di sparire e non tornare più indietro, non lasciando detto dove andavo e perché neanche ai miei genitori.
Mi sono sempre immaginata da sola, forse perché dopo anni di torture psicologiche e prese in giro da parte delle persone che mi circondavano, ero talmente stanca della gente che volevo solo la quiete che la fuga ha sempre saputo offrirmi, una volta passata l'ansia di correre e non farsi trovare.
Forse era il primo segnale che qualcosa in me - e nelle relazioni che instauravo con gli altri - non andava, ma non l'ho colto.
In realtà di segnali ce ne sono stati anche altri, anche precedenti, ma li ho sempre ignorati sperando di riuscire prima o poi ad aggiustare me stessa.

E poi, quando stavo finalmente annegando, alla fuga non ci pensavo nemmeno più, neanche con la mente, perché ero troppo stanca per fare qualsiasi altra cosa che non fosse lasciarsi andare.

Non sempre ho fatto un lavoro eccellente nel mantenere le promesse.
Avevo promesso che me ne sarei andata all'università lontana da qui e invece sono rimasta.
Avevo promesso che una volta laureata me ne sarei andata a lavorare lontano da qui e invece sono ancora qui.
Avevo promesso che non mi sarei più legata a nessuno e invece, sebbene sia riluttante ad ammetterlo, ho delle amiche e ho bisogno di loro per mantenere un minimo di calma e di umanità.
E il pensiero di andarmene e non vederle più non fa altro che scatenare un principio di iperventilazione e ansia.
Avevo promesso che non avrei più avuto bisogno di nessuno e che me la sarei sempre cavata da sola e in parte l'ho mantenuta, ma dall'altra parte ci sono loro che si preoccupano di come sto se qualcosa non va.

Anni fa, quando immaginavo il mio futuro, mi immaginavo da sola perché sarei stata io quella che avrebbe abbandonato tutto e tutti.
Oggi, quando provo a visualizzare nella mia testa come sarò tra tot anni, mi immagino ancora da sola ma perché stavolta sono stati gli altri ad abbandonami.
E conosco abbastanza me stessa e la mia vita da sapere che prima o poi tutti se ne vanno perché sono stanchi di me.
Vuoi perché sono troppo bisognosa, troppo difficile da gestire, vuoi perché non sono semplicemente abbastanza, il risultato non cambia.
Tutti, chi prima e chi dopo, se ne vanno.
E continuo ad odiare con tutte le mie forze questa parte di me che ha bisogno degli altri perché di fatto sono stata io a mettermi le catene al collo e a gettare via la chiave.
Odio questa parte di me e nonostante siano anni che ci provo, ancora non sono riuscita ad eliminarla.

Continuo comunque a nascondermi dalle persone più vicine a me, o comunque ci provo perché comunque sembrano conoscermi meglio di quanto io abbia mai sospettato.
E se fuggo un po' troppo lontano, a volte sono io che mi volto a guardare indietro e altre volte sono loro che tirano leggermente la catena e allora torno indietro da loro, un po' di mia spontanea volontà e un po' no.

Ci sono giorni in cui mi sento troppo spezzata e stanca per anche solo pensare di fuggire perché so che comunque non sopravviverei a lungo.
Non tanto a lungo come sarei riuscita a fare anni fa.

Some wounds heal quickly enough. Some bandages and ointment, a kiss from mommy or a stitch from the nurse, and you don’t have to worry about it again. Others don’t. Others fester, rot, grow infected. Cuts turn into gashes that turn into diseases that leak into your bones and break apart your body from the inside. Sometimes, she felt like her wounds had settled into her bone marrow, and she was just waiting for the good doctor to tell her how much time she had left. She wondered if people could tell she was sick when they looked at her. When her grandfather got sick, people could tell. He looked weak and tired all the time, like if the wind blew too hard he’d fall over. People didn’t have to hear her mother say, “It’s cancer,” to know that he was on the verge of breaking, his bones about to turn into dust. She could see it on their faces, pity mingled with the shame of a healthy person who looks at the still-living corpse of someone on the brink of death. Did she look sick? She wasn’t sure. Every morning she looked in the mirror and she saw the same pale figure staring back at her as she had seen every other day for the majority of her life. The same thing she saw today. She ran a hand over her throat, over the curve of her neck, turned her head to the side to observe herself. Did she look sick or was it just a feeling in her organs? A twist in her chest that reminded her she wasn’t the same? That she hadn’t been, not for months. She did not dwell. She did not allow himself to dwell, ever, because dwelling only fed the infection and she wasn’t looking forward to her own demise. The only cure, the only hope she had of beating this thing, was forgetting. Ignoring. Denying. It was easy. Sometimes. She could do it. She could pretend.

On air: George Strait - "Run"

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